È dall’altra parte del mondo, lontanissima migliaia di chilometri, ma la Patagonia è inesorabilmente parte del nostro mondo. È come un sogno che si avvera ogni volta che ci addormentiamo.
E quest’ultima Patagonia è stata un’avventura pensata intensamente, progettata nei dettagli (per quanto ogni cosa si organizzi in quella terra niente è mai come lo pianifichi), desiderata come una bella donna ma rimandata per le ragioni che tutti noi sappiamo. Ma poi arriva il momento in cui quel sogno cresce e prende la forma del viaggio più bello, quello dell’esplorazione.
I due maglioni rossi Luca Schiera e Paolo Marazzi sono appena rientrati dalla Patagonia: la loro spedizione all’estremo sud del continente americano ha esplorato nuovamente il Campo de Hielo Norte, immenso ghiacciaio di circa 120 km di lunghezza per 50 km di larghezza, per una superficie di oltre 4200 km quadrati, per intenderci grande tre volte la provincia di Milano.
Dicevamo della imprevedibilità della Patagonia, un luogo dove gli obiettivi di una spedizione «vanno negoziati giorno per giorno» come dice Luca Schiera, perché tutto è in funzione alla sfida quotidiana che ci si trova di fronte.
E così una volta rientrati in Italia abbiamo incontrato Luca Schiera che ci ha raccontato com’è andata la spedizione, partendo proprio dall’obiettivo iniziale: «Come spesso succede a quelle latitudini le cose non vanno come si prevede. Questa volta volevamo attraversare il Campo de Hielo Norte da nord a sud per arrivare alle grandi pareti da scalare fra le montagne che si trovano nell'infinita distesa di ghiaccio. Era la nostra terza esperienza in questo posto e sapevamo abbastanza bene cosa avremmo trovato, ma fin dal primo giorno non sono mancati gli imprevisti».
Qui gli spazi sono immensi e le montagne non hanno un nome. Non ancora. E per i Ragni di Lecco, queste sono terre che fanno parte dei cromosomi del gruppo alpinistico, e anche nella storia più recente le pareti patagoniche sono state accarezzate da sogni di conquista. Nel 2020 i Maglioni Rossi erano partiti all’inseguimento di una magnifica montagna inviolata individuata semplicemente con Google Maps, ma senza riuscire a raggiungerla a causa del labirinto di crepacci che li separava dalla sua base. Ci sono anche annate positive, come il 2019, quando Luca Schiera e Paolo Marazzi hanno conquistato una nuova cima nel cuore del ghiacciaio dandole il nome di Cerro Mangiafuoco.
Ma ogni spedizione è come partire da zero anche se quest’anno c’è stato un supporto: «Sì, dobbiamo ringraziare il prezioso aiuto di Andrea, uno scalatore italiano trasferito in Patagonia proprio per esplorare lo Hielo, grazie a lui siamo arrivati sulle rive del lago Leones da dove abbiamo iniziato a traghettare tutta l’attrezzatura fino all'inizio del ghiacciaio».
A sentire il racconto si percepisce il senso di fatica, ma anche l’entusiasmo della scoperta: capire come muoversi su un terreno come quello del Campo de Hielo Norte non è facile, e nemmeno tanto sicuro.
Quali imprevisti avete dovuto affrontare ci è parsa la domanda più naturale da porre a Luca: «Una cosa che ho imparato in Patagonia è che bisogna sempre essere pronti ad adattarsi alle forze della natura, che spesso si manifestano sottoforma di un vento feroce». Feroce è un aggettivo che ben si adatta alla descrizione della Patagonia.
«Per attraversare il ghiacciaio avevamo sci e slitta dove abbiamo riposto tutta l’attrezzatura, ma appena sbarcati, la prima sorpresa è stata uno spesso strato di neve fresca che ha reso pericoloso oltre il ragionevole la salita per arrivare sul Campo de Hielo - commenta Luca con il sapore amaro di chi avrebbe fatto a meno di quell’imprevisto - e così, dopo diversi consulti e un tentativo anche di notte, siamo scesi dal ghiacciaio sperando in un miglioramento».
Il racconto che segue parla di lunghe giornate trascorse nella tenda sferzata da impressionanti raffiche di vento, in attesa di un'altra finestra di bel tempo «che è arrivata e di cui abbiamo approfittato».
Una situazione che gli alpinisti conoscono bene: serve pazienza in montagna, perché è il tempo e il meteo che comandano. Ma al primo sentore di miglioramento i due Ragni si sono rimessi in marcia.
«Sì, siamo partiti per un giro di quattro giorni: all'alba del secondo finalmente abbiamo valicato il passo e da lì ci siamo goduti una lunga discesa sugli sci fino allo Hielo. Il resto del giorno lo abbiamo passato tirando la slitta fino ad arrivare alla base delle prime pareti di roccia»
A questo punto la narrazione entra nel vivo: «Al terzo giorno è iniziato il conto alla rovescia: entro l'alba successiva saremmo dovuti essere già fuori dal ghiacciaio per non rimanere bloccati dal brutto tempo»commenta Luca con fare deciso, consapevole che ogni decisione viene presa con la ragionevole componente di rischio.
Le finestre di bel tempo non durano mai abbastanza, e per muoversi in spazi selvaggi e inesplorati serve lucidità e capacità di valutare le condizioni. Nel frattempo però Schiera e Marazzi sono giunti in prossimità di una montagna che si erge dallo Hielo…
«Abbiamo quindi scalato una via semplice, 300 metri fino a 6a, dalla cui cima ci siamo fatti un’idea del percorso migliore da seguire al ritorno e siamo scesi alla nostra tenda. Dopo una breve pausa guardando il tramonto siamo ripartiti verso sud. L'idea era di pellare intorno a questo gruppo di montagne sperando di trovare un percorso più semplice rispetto a quello di andata: ci aspettavano ancora decine di chilometri e dovevamo salvare il più possibile le energie. Abbiamo passato tutta la notte cercando i crepacci sotto gli sci e navigando con GPS e cartina nel buio totale su terreno sconosciuto. Non proprio una cosa semplice…».
Una corsa per sfuggire il maltempo in arrivo, sicuramente non facile su un terreno così ostico.
«Il piano stava funzionando alla perfezione, ma più ci avvicinavamo al passo più la mancanza di sonno, unita allo stress costante nel trovare la via più sicura, ci stava portando al limite: abbiamo camminato e arrampicato molte volte di notte ma questa situazione è stata del tutto surreale.
Quattro giorni più tardi eravamo sulle rive del lago ad aspettare la barca per il ritorno».
La Patagonia è così, attesa e sognata e poi improvvisamente vicina e possibile, e in un attimo è già ora di scrivere il bilancio, gettando le basi per un’altra spedizione.
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